Nanoparticelle di ultima generazione contro il tumore al seno

Da oggi in Italia Abraxane® (paclitaxel albumina): un farmaco a base di nanoparticelle, frutto delle più sofisticate tecniche d'ingegneria genetica, come la piattaforma nab™, che coniuga finalmente efficacia, sicurezza e maneggevolezza.


Con la decrescita del 30% del tasso di mortalità per tumore al seno
è aumentata l’attenzione verso la tollerabilità delle terapie e la qualità della vita delle donne colpite dalla malattia in fase avanzata.
Da oggi in Italia un farmaco a base di nanoparticelle, frutto delle più sofisticate tecniche d’ingegneria genetica, come la piattaforma nabTM, che coniuga finalmente efficacia, sicurezza e maneggevolezza.

Roma, 30 marzo 2011 – Come a bordo di una “navicella”, il farmaco in forma di nanoparticelle 100 volte più piccole di un globulo rosso oltrepassa velocemente tutte le barriere fisiologiche per portare la forza del principio chemioterapico intatto al centro della cellula tumorale: non è la trama di un film di fantascienza ma l’innovativo meccanismo d’azione di paclitaxel albumina (Abraxane®), un nuovo farmaco basato sulla piattaforma nabTM, che coniuga un principio attivo di efficacia antitumorale comprovata, paclitaxel, con la tecnologia d’avanguardia basata sulle nanoparticelle, per offrire alle pazienti con tumore al seno in fase avanzata un trattamento più efficace e allo stesso tempo più sicuro. Una nanoparticella di paclitaxel albumina ha una dimensione media che corrisponde a 130 nanometri, cioè 130 millionesimi di millimetro, circa 100 volte più piccola di un globulo rosso. Per la loro dimensione infinitesimale, le nanoparticelle di Abraxane® sono dunque in grado di veicolare nel sangue il principio attivo senza necessità di solventi chimici e di penetrare nella membrana della cellula tumorale. Abraxane® rappresenta un salto evolutivo per la maggiore efficacia rispetto al paclitaxel in quanto ha raddoppiato la percentuale di risposta nelle pazienti in seconda linea e ha prolungato significativamente il tempo alla progressione del tumore, estendendo la sopravvivenza globale e riducendo del 28% il rischio di decesso.
Dopo l’approvazione della FDA, Abraxane® approda finalmente in Italia: come rileva il Professor Sabino De Placido, Ordinario di Oncologia Medica, Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli “la nanotecnologia, attraverso un meccanismo biologicamente naturale e altamente innovativo, consente che alte concentrazioni di paclitaxel, senza la necessità di solventi sintetici tossici, possano essere veicolate al sito del tumore. È stato dimostrato da studi preclinici un accumulo intraneoplastico di paclitaxel significativamente superiore del 33% per 24 ore con paclitaxel albumina radiomarcato, in confronto a una dose equivalente di taxolo contenente solvente. Pertanto, paclitaxel albumina non può essere considerato soltanto un altro taxano ma è una vera chemioterapia target, che si configura come un trattamento altamente innovativo nel carcinoma mammario metastatico”.


L’indicazione per cui il farmaco è stato autorizzato è, infatti, il tumore alla mammella in fase avanzata che non risponde alla chemioterapia usuale. In questi casi l’efficacia terapeutica rappresenta ovviamente il target primario, anche se il raggiungimento di questo obiettivo, fino a qualche anno fa, poteva non andare di pari passo con un’attenzione alla tollerabilità e alla qualità di vita delle donne impegnate nei trattamenti. In questa nuova fase della lotta al tumore al seno, coniugare efficacia e tollerabilità rappresenta la nuova sfida, specie per le donne che si trovano in una fase avanzata del tumore e per le quali il tempo di vita è cruciale non solo in termini quantitativi, ma anche dal punto di vista della sua qualità. I trial clinici di Fase III cui è stato sottoposto provano che Abraxane® ha vinto la sfida: costituito da paclitaxel, un antitumorale di comprovata efficacia della famiglia dei taxani, legato in forma di nanoparticelle alla proteina naturale dell’albumina, Abraxane® è in grado di raggiungere e centrare gli obiettivi di efficacia, sicurezza e tollerabilità sfruttando i meccanismi di nutrizione del tumore contro il tumore stesso. Una tecnologia avanzatissima che, grazie all’albumina utilizzata come carrier naturale, riesce ad aumentare del 33% l’accumulo dell’antitumorale paclitaxel sul tumore e dunque potenziare l’efficacia della cura, mitigando sensibilmente gli effetti collaterali.
Finalmente, come afferma il professor Paolo Marchetti, Professore Ordinario di Oncologia Medica presso Sapienza Università di Roma, “è ormai largamente superata la volontà dei medici oncologi di trattare solo il tumore indipendentemente dai sacrifici della paziente: abbiamo imparato a trattare una paziente affetta da un tumore, della quale ora si riconoscono le diverse caratteristiche, sia a livello clinico che genomico, per ridurre la tossicità dei trattamenti o per prevederla con maggiore accuratezza”. Abraxane® infatti rappresenta un salto evolutivo non solo per la maggiore efficacia rispetto al paclitaxel disciolto in solvente ma anche per la tollerabilità. I taxani hanno sempre avuto un ruolo centrale nel trattamento del cancro della mammella metastatico, ma il loro problema è la tossicità, in quanto richiedono solventi chimici per la somministrazione che rendono necessaria la premedicazione e kit speciali per l’infusione, che dura circa tre ore. Abraxane® invece viene somministrato nell’arco di un breve periodo di 30 minuti senza set speciali per infusione né premedicazione per prevenire reazioni d'ipersensibilità.
Secondo i risultati di un trial clinico di Fase III, Abraxane® ha infatti raggiunto degli importanti obiettivi in termini di efficacia e di sicurezza consentendo al medico e quindi anche alla paziente una somministrazione molto più maneggevole, come osserva Francesco Cognetti, Direttore del Dipartimento di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma: “Abraxane® è caratterizzato da completa mancanza di fenomeni d’ipersensibilità in assenza di premedicazione con cortisonici e antiallergici. Si tratta di un’infusione normale, che riduce il tempo di somministrazione a circa mezz’ora e che non richiede dispositivi speciali, eliminando, tra l’altro, un costo aggiuntivo per il Servizio Sanitario Nazionale”. Per le donne che affrontano la fase più difficile della loro battaglia contro il tumore al seno, l’attenzione alla qualità della vita è un principio fondamentale: l’aggiustamento personalizzato della dose, tempi brevi d’infusione ed effetti collaterali mitigati sono vantaggi significativi per una paziente con tumore in stato avanzato, spesso costretta a fronteggiare non solo gli effetti della patologia, ma anche la pesantezza delle terapie e i loro eventuali effetti iatrogenici.
Grazie al costante impegno nella ricerca che caratterizza l’operato di Celgene e ai suoi risultati, le pazienti possono oggi contare su terapie sempre più rispettose del loro delicato equilibrio e delle loro esigenze. “Celgene fa tesoro delle esperienze del passato di ognuno per realizzare il sogno di tutti: occuparsi con passione di una grande causa realizzando il maggior beneficio possibile per la collettività, i pazienti e le loro famiglie, i medici, tutti i professionisti e i decisori che lavorano per migliorare ogni giorno la salute delle persone in tutto il mondo” – afferma Stefano Portolano, Amministratore Delegato di Celgene Italia – “questo è un obiettivo straordinariamente ambizioso, considerata la complessità nella quale operiamo. Ma Celgene ha già fatto molto: ha sviluppato una delle pipeline più ricche di promesse nelle aree ematologica e oncologica; ha istituito uno dei più rigorosi programmi di farmacovigilanza attualmente esistenti, attraverso il quale i pazienti vengono strettamente monitorati durante il trattamento farmacologico. Noi siamo arrivati in Italia per fare la nostra parte e costruire un lungo percorso di eccellenza. Vogliamo farlo insieme a tutti quelli che crederanno in noi e insieme a noi contribuiranno a migliorare la vita di molte persone e di molte generazioni a venire”.


Verso l’integrazione terapeutica e la presa in carico globale della paziente affetta da tumore al seno 

Il carcinoma della mammella è la neoplasia femminile a più elevata incidenza nei Paesi industrializzati, per cui ogni piccolo incremento di efficacia dei trattamenti si traduce in decine di migliaia di vite salvate: come si sono modificati i fondamenti della gestione clinica di questo tumore negli ultimi decenni?
Negli ultimi 40 anni, il trattamento del cancro della mammella operato si è basato sempre di più sull’integrazione terapeutica. Dalla sola chirurgia (peraltro particolarmente devastante) con un elevato numero di insuccessi terapeutici, si è passati ad una chirurgia più conservativa associata alla radioterapia; con l’aggiunta di schemi contenenti tre farmaci (CMF) si è osservato un vantaggio di circa il 4%. Negli anni ‘80 l’utilizzazione delle antracicline in terapia adiuvante ha determinato un ulteriore vantaggio del 4%, fino al 2000, quando l’inserimento dei taxani ha permesso di aggiungere un ulteriore 5% e, nel gruppo di pazienti con malattia contenente uno specifico recettore per i fattori di crescita (HER-2), un anticorpo monoclonale ha permesso di superare ulteriormente questi limiti. Questi risultati sono stati migliorati con la terapia ormonale. Nel complesso, negli ultimi 20-30 anni vi è stato un 15-20% di miglioramento nella sopravvivenza di pazienti affette da cancro della mammella in fase iniziale. Questi risultati, anche se molto importanti, devono essere ulteriormente migliorati.
In questi ultimi anni, la ricerca clinica si sta rivolgendo sempre di più verso la possibilità di personalizzare i trattamenti. Oggi è possibile riconoscere all’interno della cellula specifici bersagli molecolari, contro cui indirizzare i nostri farmaci. Oltre che le caratteristiche del tumore, abbiamo imparato a riconoscere le diverse caratteristiche della paziente, sia a livello clinico che genomico, per ridurre la tossicità dei trattamenti o per prevederla con maggiore accuratezza. Lo studio delle cellule tumorali circolanti rappresenta oggi una interessante prospettiva di ricerca.

Quali sono i fattori prognostici che maggiormente possono influire su un esito clinico non favorevole del tumore alla mammella?
Per fattori prognostici intendiamo elementi in grado di consentirci di prevedere l’evoluzione della malattia. Alcuni elementi clinici possono essere nello stesso tempo fattori prognostici e fattori predittivi di risposta (come i recettori per gli ormoni steroidei). I fattori prognostici possono essere legati alle caratteristiche cliniche della neoplasia (dimensioni, interessamento dei linfonodi) o alle sue caratteristiche biologiche (grado di differenziazione, contenuto di recettori per gli ormoni steroidei, attività proliferativa, espressione di recettori appartenenti alla famiglia degli EGFR, come HER-2). Sulla base di queste caratteristiche, viene deciso il trattamento adiuvante, cioè da attuare subito dopo l’intervento chirurgico.
Paolo Marchetti - Professore Ordinario Oncologia Medica, Sapienza Università di Roma 





Fonte: Pro Format Comunicazione – Ufficio stamp